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Ritorno ad Astrachan: dove i musulmani proteggono le chiese
Inserito il maggio 16, 2010 da Balente | Lascia un commento
Basta il nome per evocare il lusso di pregiatissime morbide pellicce, ma questa città di oltre mezzo milione di abitanti, sorta su dodici isole separate dai canali e perciò battezzata la Venezia del Caspio, è anche un florido centro commerciale che deve la sua ricchezza al petrolio e al caviale.
Rasa al suolo nel Medioevo da Tamerlano, aggredita nel ’500 da Ivan il Terribile (vicenda che ispirò l’incandescente «Oratorio» di Sergej Prokofiev), sgominata dai cosacchi, devastata da una serie di paurosi incendi e infine decimata dal colera nel 1830, Astrachan ebbe sorte migliore sotto Pietro il Grande, che fece costruire i cantieri navali, e durante il regno di Caterina II, che avviò le strutture industriali gettando le basi della prosperità odierna.
Ciò che vide il giovane ufficiale austriaco e scrittore Joseph Roth quando vi sbarcò negli anni Venti su un battello a vapore era un «mondo di poveri», di bambini che «vivono d’aria e di sventura», di scaricatori di porto che si sbronzano d’acquavite «e cantano come condannati a morte: mentre le città che s’incontrano lungo i 3.531 chilometri del Volga—il più lungo fiume europeo—sono le più tristi che io abbia mai visto».
Facendo il percorso inverso —ma in treno, non in barca—sulla sponda occidentale del fiume (ancora ghiacciato ai primi d’aprile), i grossi e piccoli centri abitati lungo la strada da Astrachan a Nizhny-Novgorod (la ex Gorky, per dirla con risparmio di ostiche consonanti) non mi sono parsi così deprimenti: né avrebbe potuto essere diversamente se si tiene conto che dal viaggio di Roth, nell’estate del ’26, ad oggi, sono passati quasi cent’anni e la fisionomia della Russia è stata drammaticamente alterata da rivoluzioni e guerre. Se l’odore (o il profumo) del pesce ti dà la nausea, Astrachan è città da evitare, nel modo più assoluto: perché esso ti insegue e perseguita ovunque, sprigionandosi giorno e notte dalle bancarelle del mercato coperto dove sono stivati quintali e quintali di lucci, siluri, carpe, storioni, aringhe affumicate. Tutta merce di ottima qualità che viene ulteriormente aromatizzata, in cene pantagrueliche, da un diluvio di ettolitri di vodka.
I cronisti del più importante quotidiano locale lamentano che nel delta del Volga la presenza degli storioni — dalle cui uova si ricava il caviale—si sia via via diradata facendone temere l’estinzione: «Negli anni Ottanta — precisa uno dei redattori — è stato raggiunto il punto più alto dello sfruttamento intensivo dello storione rosso, da cui si è potuto estrarre dal 13 al 22 per cento di caviale. Ma ora anche gli iraniani, sfruttando il Caspio, ne producono grosse quantità e ci fanno concorrenza. Non lo mangiano per motivi religiosi e quindi lo esportano all’estero col massimo profitto». Un’altra minaccia è costituita dal bracconaggio sempre più intenso nella regione del Daghestan, dove i bucanieri, talvolta con la complicità della polizia locale, catturano il pesce prima che arrivi ad Astrachan. Contro di loro le autorità di Mosca hanno fatto scendere in campo i «Piranas », reparti speciali cui vengono affidate le missioni più rischiose e difficili. Secondo gli esperti, occorrono 16 anni perché lo storione produca il caviale e il programma di rivitalizzazione del pesce più pregiato del Volga e del Caspio è alla fine «molto costoso». Ma quaggiù, nella retrovia meridionale se la ridono, convinti come sono che lassù a Mosca nessuno è in grado di distinguere il prodotto di valore da quello scadente e comunque il prezzo delle prelibate scatolette resta sempre molto alto. «Quello rosso—dice il collega russo che ci accompagna— si trova dappertutto, mentre di quello nero ne rimane pochissimo e beato chi se lo può permettere, come Vladimir Putin». Il raro privilegio è confermato da una foto che mostra il leader russo mentre bacia uno storione sulla riva del Volga e subito dopo, generosamente, lo ributta in acqua: «Un gesto — aggiunge il giornalista—che secondo me ha un significato preciso: oggi ci sono ricchezze più grandi del caviale, che pure rimane un grosso introito per l’economia nazionale. Ma stiamo vivendo nell’era del gas e del petrolio. Nel mare, a soli 150 chilometri da Astrachan, sono già in azione una schiera di pozzi che costituiscono la più solida garanzia per il nostro futuro».
Fortunatamente la natura è provvida e se lo storione comincia a scarseggiare ecco che i russi trovano in abbondanza nelle loro acque un altro grosso pesce, la vobla, da cui pure si ricava il caviale, che è diventato il piatto forte dei pescatori: tutta gente di insaziabile appetito e forza erculea, capace di «portare sulla schiena 240 chili» e di «stritolare una noce tra l’indice e il medio», come scrive Roth nella sua prosa omerica. Uomini che sono delle gru: e gru che solo possano essere abbattute da ettolitri di acquavite fatta in casa. Tuttavia, questo enorme patrimonio ittico viene costantemente insidiato dalle industrie che sfruttano l’acqua per accumulare energia idroelettrica, col risultato— avvertono gli scienziati—che nel Volga, nei suoi affluenti e nella rete dei canali non c’è più acqua sufficiente per le 45 mila tonnellate di pesce che vi guazzano dentro. Non stupisce che sia nato e continui a imperversare un conflitto tra la categoria dei pescatori e quella dei camici bianchi delle centrali idroelettriche. Nella periferia di Astrachan, fiumi, laghi, canali e stagni sono ancora tutti gelati. Sulla lastra di ghiaccio si vedono solo dei puntini neri, uomini e donne intenti a pescare. «Mia moglie ed io ci veniamo regolarmente— dice Larry, l’uomo che ci ha accompagnato in questa estrema solitudine, a 70 chilometri dalla città — facciamo un buco nel ghiaccio e tiriamo su i pesciolini, già belli congelati. Ma non mancano i pesci grossi. D’estate piovono qui orde di turisti, fino a un milione e mezzo di pescatori da strapazzo che noi chiamiamo selvaggi. Ma i pesci non abboccano».
Non credo sia facile tracciare una fisionomia di Astrachan, via via definita una città di profughi, di fuggiaschi, di gente in cerca di fortuna, una specie di approdo come per i pionieri del Far West. C’è però un connotato che la contraddistingue e viene giustamente sottolineato: e cioè che nella sua storia e tra le sue mura non vi sia mai stata la servitù della gleba. Retaggio che spiega in parte anche la pacifica convivenza odierna fra le due grandi etnie e le due grandi fedi religiose della popolazione: da una parte i russi ortodossi, dall’altra i tatari musulmani. Ed è perlomeno curioso che abbia affrontato l’argomento di questo straordinario fenomeno di concordia in un luogo neutro come la Cattedrale dell’Assunzione di Astrachan, una chiesa cattolica, grazie all’incontro con suor Anna, arrivata qui dal Canada francese 13 anni or sono, e con l’imam Farid, ambedue impegnati nella propria missione. «Ad Astrachan —spiega Farid—ci sono oggi più di 40 moschee, mentre prima, in un passato neanche troppo remoto, ce n’erano solo cinque. La presenza, in questa città, di 19 confessioni o fedi non ha creato mai alcun problema, al contrario. Io m’incontro spesso con suor Anna e con altri leader religiosi, mettiamo a confronto le diverse esperienze nel tentativo di appianare e superare le difficoltà che ogni Chiesa deve affrontare. Per quanto riguarda la mia religione, posso tranquillamente affermare che qui non si sono mai verificati episodi omanifestazioni di quel fanatismo islamico che ha provocato altrove gravi inquietudini e turbamenti. Non siamo mai scesi sul terreno di guerra nel nome di Allah. Avrà notato che ad Astrachan si vedono poche donne velate per le strade, anzi non ce ne sono più». La cattedrale, con le sue cupole splendenti in questa giornata di sole e d’azzurro, è stata costruita—informa suor Anna—grazie anche ai finanziamenti dei commercianti e degli industriali locali, per la maggior parte di fede islamica, che accomuna il 24 per cento della popolazione russa. «La cosa non deve stupire — aggiunge in fretta la religiosa canadese avvertendo la nostra sorpresa —. Negli anni Trenta, quando il regime ateo comunista di Mosca minacciava di distruggere tutte le chiese o farne dei magazzini e delle caserme, furono i tatari musulmani, qui ad Astrachan, a fare una catena umana attorno alla chiesa per impedire l’assalto dei militari ».
A Saratov—anch’essa sul Volga, mille chilometri a sud di Mosca, circa un milione di abitanti — la religione sembra avere un impatto più forte. Molta gente, inginocchiata sulla moquette, assiste alla cerimonia liturgica nella moschea di Rachida. «Sia l’Islam che la Chiesa ortodossa—dice l’imam—sono in piena attività e godono, ambedue, di una grande affluenza di pubblico. Le due religioni convivono pacificamente da sempre perché animate dagli stessi principi. Solo la liturgia è diversa». Il regime sovietico è intervenuto pesantemente contro l’una e l’altra fede: «La repressione ha colpito nella stessa misura la comunità cristiana come quella musulmana. Ognuna ha avuto i suoi martiri: gente ammazzata, deportata in Siberia». Queste sofferenze hanno rafforzato lo spirito religioso nella regione di Saratov, che si distingue per l’assiduità, da parte dei musulmani, ai pellegrinaggi annuali alla Mecca. «Ma — assicura l’imam— noi non siamo mai stati contaminati da quel movimento che viene definito integralismo islamico. E disponiamo di un organo interno che previene ogni tipo di estremismo ». I libri di storia informano che l’Islam approdò in questa parte del mondo nel nono secolo dopo Cristo per iniziativa dello sceicco arabo Ibn Fadlan. Attualmente, i musulmani della regione sono una piccola minoranza rispetto allo Stato totalmente islamico delle origini. L’attuale muftì di Saratov, Mukaddas Barbisov, ricorda di essere entrato nella moschea quando aveva 17 anni tra la disapprovazione dei suoi coetanei, che non vi avrebbero mai messo piede, perché — sottolinea — «durante il periodo sovietico, un credente era considerato un retrogrado, fosse esso musulmano o cristiano». Una filosofia non del tutto estinta.
Fonte: Ettore Mo per il Corriere della Sera.
Источник.
Очень коротко. Город с полумиллионным населением на 12 островах. Каспийская Венеция. Город обязан своими успехами нефти и икре. В средние века был стёрт с лица земли Тамерланом, захвачен Иваном Грозным, разгромлен казаками (вероятно, имеется в виду взятие Астрахани Степаном Разиным), опустошён страшными пожарами, разорён холерой в 1830 году. Астрахани повезло больше при Петре I, который заложил строительство верфей. Практически отсутствие крепостного права в регионе в царские времена. Самая крупная река Европы. Осетровые на грани исчезновения. Наличие 19 конфессий и религий в городе не создают проблем. Описана защита местными мусульманами православного храма (св. Владимира) от Советской власти.
Inserito il maggio 16, 2010 da Balente | Lascia un commento
Basta il nome per evocare il lusso di pregiatissime morbide pellicce, ma questa città di oltre mezzo milione di abitanti, sorta su dodici isole separate dai canali e perciò battezzata la Venezia del Caspio, è anche un florido centro commerciale che deve la sua ricchezza al petrolio e al caviale.
Rasa al suolo nel Medioevo da Tamerlano, aggredita nel ’500 da Ivan il Terribile (vicenda che ispirò l’incandescente «Oratorio» di Sergej Prokofiev), sgominata dai cosacchi, devastata da una serie di paurosi incendi e infine decimata dal colera nel 1830, Astrachan ebbe sorte migliore sotto Pietro il Grande, che fece costruire i cantieri navali, e durante il regno di Caterina II, che avviò le strutture industriali gettando le basi della prosperità odierna.
Ciò che vide il giovane ufficiale austriaco e scrittore Joseph Roth quando vi sbarcò negli anni Venti su un battello a vapore era un «mondo di poveri», di bambini che «vivono d’aria e di sventura», di scaricatori di porto che si sbronzano d’acquavite «e cantano come condannati a morte: mentre le città che s’incontrano lungo i 3.531 chilometri del Volga—il più lungo fiume europeo—sono le più tristi che io abbia mai visto».
Facendo il percorso inverso —ma in treno, non in barca—sulla sponda occidentale del fiume (ancora ghiacciato ai primi d’aprile), i grossi e piccoli centri abitati lungo la strada da Astrachan a Nizhny-Novgorod (la ex Gorky, per dirla con risparmio di ostiche consonanti) non mi sono parsi così deprimenti: né avrebbe potuto essere diversamente se si tiene conto che dal viaggio di Roth, nell’estate del ’26, ad oggi, sono passati quasi cent’anni e la fisionomia della Russia è stata drammaticamente alterata da rivoluzioni e guerre. Se l’odore (o il profumo) del pesce ti dà la nausea, Astrachan è città da evitare, nel modo più assoluto: perché esso ti insegue e perseguita ovunque, sprigionandosi giorno e notte dalle bancarelle del mercato coperto dove sono stivati quintali e quintali di lucci, siluri, carpe, storioni, aringhe affumicate. Tutta merce di ottima qualità che viene ulteriormente aromatizzata, in cene pantagrueliche, da un diluvio di ettolitri di vodka.
I cronisti del più importante quotidiano locale lamentano che nel delta del Volga la presenza degli storioni — dalle cui uova si ricava il caviale—si sia via via diradata facendone temere l’estinzione: «Negli anni Ottanta — precisa uno dei redattori — è stato raggiunto il punto più alto dello sfruttamento intensivo dello storione rosso, da cui si è potuto estrarre dal 13 al 22 per cento di caviale. Ma ora anche gli iraniani, sfruttando il Caspio, ne producono grosse quantità e ci fanno concorrenza. Non lo mangiano per motivi religiosi e quindi lo esportano all’estero col massimo profitto». Un’altra minaccia è costituita dal bracconaggio sempre più intenso nella regione del Daghestan, dove i bucanieri, talvolta con la complicità della polizia locale, catturano il pesce prima che arrivi ad Astrachan. Contro di loro le autorità di Mosca hanno fatto scendere in campo i «Piranas », reparti speciali cui vengono affidate le missioni più rischiose e difficili. Secondo gli esperti, occorrono 16 anni perché lo storione produca il caviale e il programma di rivitalizzazione del pesce più pregiato del Volga e del Caspio è alla fine «molto costoso». Ma quaggiù, nella retrovia meridionale se la ridono, convinti come sono che lassù a Mosca nessuno è in grado di distinguere il prodotto di valore da quello scadente e comunque il prezzo delle prelibate scatolette resta sempre molto alto. «Quello rosso—dice il collega russo che ci accompagna— si trova dappertutto, mentre di quello nero ne rimane pochissimo e beato chi se lo può permettere, come Vladimir Putin». Il raro privilegio è confermato da una foto che mostra il leader russo mentre bacia uno storione sulla riva del Volga e subito dopo, generosamente, lo ributta in acqua: «Un gesto — aggiunge il giornalista—che secondo me ha un significato preciso: oggi ci sono ricchezze più grandi del caviale, che pure rimane un grosso introito per l’economia nazionale. Ma stiamo vivendo nell’era del gas e del petrolio. Nel mare, a soli 150 chilometri da Astrachan, sono già in azione una schiera di pozzi che costituiscono la più solida garanzia per il nostro futuro».
Fortunatamente la natura è provvida e se lo storione comincia a scarseggiare ecco che i russi trovano in abbondanza nelle loro acque un altro grosso pesce, la vobla, da cui pure si ricava il caviale, che è diventato il piatto forte dei pescatori: tutta gente di insaziabile appetito e forza erculea, capace di «portare sulla schiena 240 chili» e di «stritolare una noce tra l’indice e il medio», come scrive Roth nella sua prosa omerica. Uomini che sono delle gru: e gru che solo possano essere abbattute da ettolitri di acquavite fatta in casa. Tuttavia, questo enorme patrimonio ittico viene costantemente insidiato dalle industrie che sfruttano l’acqua per accumulare energia idroelettrica, col risultato— avvertono gli scienziati—che nel Volga, nei suoi affluenti e nella rete dei canali non c’è più acqua sufficiente per le 45 mila tonnellate di pesce che vi guazzano dentro. Non stupisce che sia nato e continui a imperversare un conflitto tra la categoria dei pescatori e quella dei camici bianchi delle centrali idroelettriche. Nella periferia di Astrachan, fiumi, laghi, canali e stagni sono ancora tutti gelati. Sulla lastra di ghiaccio si vedono solo dei puntini neri, uomini e donne intenti a pescare. «Mia moglie ed io ci veniamo regolarmente— dice Larry, l’uomo che ci ha accompagnato in questa estrema solitudine, a 70 chilometri dalla città — facciamo un buco nel ghiaccio e tiriamo su i pesciolini, già belli congelati. Ma non mancano i pesci grossi. D’estate piovono qui orde di turisti, fino a un milione e mezzo di pescatori da strapazzo che noi chiamiamo selvaggi. Ma i pesci non abboccano».
Non credo sia facile tracciare una fisionomia di Astrachan, via via definita una città di profughi, di fuggiaschi, di gente in cerca di fortuna, una specie di approdo come per i pionieri del Far West. C’è però un connotato che la contraddistingue e viene giustamente sottolineato: e cioè che nella sua storia e tra le sue mura non vi sia mai stata la servitù della gleba. Retaggio che spiega in parte anche la pacifica convivenza odierna fra le due grandi etnie e le due grandi fedi religiose della popolazione: da una parte i russi ortodossi, dall’altra i tatari musulmani. Ed è perlomeno curioso che abbia affrontato l’argomento di questo straordinario fenomeno di concordia in un luogo neutro come la Cattedrale dell’Assunzione di Astrachan, una chiesa cattolica, grazie all’incontro con suor Anna, arrivata qui dal Canada francese 13 anni or sono, e con l’imam Farid, ambedue impegnati nella propria missione. «Ad Astrachan —spiega Farid—ci sono oggi più di 40 moschee, mentre prima, in un passato neanche troppo remoto, ce n’erano solo cinque. La presenza, in questa città, di 19 confessioni o fedi non ha creato mai alcun problema, al contrario. Io m’incontro spesso con suor Anna e con altri leader religiosi, mettiamo a confronto le diverse esperienze nel tentativo di appianare e superare le difficoltà che ogni Chiesa deve affrontare. Per quanto riguarda la mia religione, posso tranquillamente affermare che qui non si sono mai verificati episodi omanifestazioni di quel fanatismo islamico che ha provocato altrove gravi inquietudini e turbamenti. Non siamo mai scesi sul terreno di guerra nel nome di Allah. Avrà notato che ad Astrachan si vedono poche donne velate per le strade, anzi non ce ne sono più». La cattedrale, con le sue cupole splendenti in questa giornata di sole e d’azzurro, è stata costruita—informa suor Anna—grazie anche ai finanziamenti dei commercianti e degli industriali locali, per la maggior parte di fede islamica, che accomuna il 24 per cento della popolazione russa. «La cosa non deve stupire — aggiunge in fretta la religiosa canadese avvertendo la nostra sorpresa —. Negli anni Trenta, quando il regime ateo comunista di Mosca minacciava di distruggere tutte le chiese o farne dei magazzini e delle caserme, furono i tatari musulmani, qui ad Astrachan, a fare una catena umana attorno alla chiesa per impedire l’assalto dei militari ».
A Saratov—anch’essa sul Volga, mille chilometri a sud di Mosca, circa un milione di abitanti — la religione sembra avere un impatto più forte. Molta gente, inginocchiata sulla moquette, assiste alla cerimonia liturgica nella moschea di Rachida. «Sia l’Islam che la Chiesa ortodossa—dice l’imam—sono in piena attività e godono, ambedue, di una grande affluenza di pubblico. Le due religioni convivono pacificamente da sempre perché animate dagli stessi principi. Solo la liturgia è diversa». Il regime sovietico è intervenuto pesantemente contro l’una e l’altra fede: «La repressione ha colpito nella stessa misura la comunità cristiana come quella musulmana. Ognuna ha avuto i suoi martiri: gente ammazzata, deportata in Siberia». Queste sofferenze hanno rafforzato lo spirito religioso nella regione di Saratov, che si distingue per l’assiduità, da parte dei musulmani, ai pellegrinaggi annuali alla Mecca. «Ma — assicura l’imam— noi non siamo mai stati contaminati da quel movimento che viene definito integralismo islamico. E disponiamo di un organo interno che previene ogni tipo di estremismo ». I libri di storia informano che l’Islam approdò in questa parte del mondo nel nono secolo dopo Cristo per iniziativa dello sceicco arabo Ibn Fadlan. Attualmente, i musulmani della regione sono una piccola minoranza rispetto allo Stato totalmente islamico delle origini. L’attuale muftì di Saratov, Mukaddas Barbisov, ricorda di essere entrato nella moschea quando aveva 17 anni tra la disapprovazione dei suoi coetanei, che non vi avrebbero mai messo piede, perché — sottolinea — «durante il periodo sovietico, un credente era considerato un retrogrado, fosse esso musulmano o cristiano». Una filosofia non del tutto estinta.
Fonte: Ettore Mo per il Corriere della Sera.
Источник.
Очень коротко. Город с полумиллионным населением на 12 островах. Каспийская Венеция. Город обязан своими успехами нефти и икре. В средние века был стёрт с лица земли Тамерланом, захвачен Иваном Грозным, разгромлен казаками (вероятно, имеется в виду взятие Астрахани Степаном Разиным), опустошён страшными пожарами, разорён холерой в 1830 году. Астрахани повезло больше при Петре I, который заложил строительство верфей. Практически отсутствие крепостного права в регионе в царские времена. Самая крупная река Европы. Осетровые на грани исчезновения. Наличие 19 конфессий и религий в городе не создают проблем. Описана защита местными мусульманами православного храма (св. Владимира) от Советской власти.